Una scienza per molte medicine
La globalizzazione è un processo che sta interessando tutte le discipline e che spinge verso un ampliamento dei nostri confini culturali. Anche il mondo scientifico è soggetto a questa inevitabile mutazione e, per quanto ci si attenda che esso manifesti l’apertura più ampia verso l’integrazione delle conoscenze, spesso ciò non accade. Questo è il caso, ad esempio, del difficile rapporto tra la medicina scientifica occidentale, meglio detta “allopatica” e le medicine definite “alternative”.
La denominazione delle due materie già dice molto sui termini del dibattito: il termine “alternativa” sottolinea quanto la nostra scienza si consideri un’elite e dà l’impressione di una certa chiusura culturale, quasi a voler dire: “Se non sei con me, sei contro di me”, perciò non si può affrontare insieme un discorso diagnostico, ma solo separare delle strade, dividere, alternare.
Il mio più autorevole maestro di medicina cinese sostiene che l’appellativo corretto sarebbe “medicina integrativa”.
Spesso si sente dire che le medicine “alternative” non possono essere considerate valide perchè non rispondono ai criteri del metodo scientifico. Premesso che riconosco il grande valore che ha la scienza e il suo metodo, al di là di come esso viene applicato, vorrei porre l’attenzione su alcuni punti:
1. Il metodo scientifico classico si basa sull’indipendenza tra osservatore ed oggetto osservato, e la fisica quantistica ha dimostrato che questo non è un presupposto sempre valido, ma piuttosto una esemplificazione: gli elettroni si comportano in modo diverso a seconda di come vengono studiati, la luce si comporta in maniera ondulatoria o corpuscolare a seconda di come essa viene misurata. Pertanto l’assioma che considera indipendenti soggetto e oggetto non descrive che uno dei modi di presentarsi della realtà, e non esclude gli altri. Nella pratica, quindi, la scienza galileana non può affermare che ciò che non rientra nei suoi canoni sia falso, ma può esprimersi solo su ciò che si può indagare attraverso la metodologia che le è propria. D’altra parte in quest’ultimo caso, come diceva Popper, la scienza è molto più utile nel dimostrare ciò che non è vero, rispetto a ciò che lo è, perché si basa sul concetto di riproducibilità: la certezza su un risultato sperimentale è “asintotica”, perché richiederebbe infinite replicazioni dello stesso esperimento, mentre basta un esito negativo per stabilire che l’ipotesi postulata è falsa.
2. Il fatto che la medicina allopatica considera l’ “altro” come esterno a sè, è insieme un motivo di successo e di insuccesso. Il successo è che è riproducibile, entro certi limiti. Perciò, indipendentemente da chi prescrive un farmaco, esso seguirà il suo corso nell’organismo del paziente e farà, più o meno, quello che fa negli altri. La riproducibilità ci rende fiduciosi di ottenere un effetto, se le cause sono note; tuttavia è pericolosa perchè ci può rendere troppo fiduciosi, a tal punto che possiamo essere indotti nell’errore di pensare che la medicina scientifica possa curare tutto. È vero il contrario: l’insuccesso dovuto alla separazione tra osservatore e osservato (non presente nella medicina originale, quella di Ippocrate e pre-illuministica) consiste nel fatto che la nostra medicina non cura molte malattie, e quasi sempre cura i sintomi e non le cause. Ecco perchè serve una medicina integrativa, perchè nessuna delle due (e più) medicine è esaustiva.
Accade diversamente, ad esempio, nell’agopuntura e nel massaggio cinese, come in altre discipline olistiche: l’effetto dipende anche da chi agisce sull’organismo, cioè l’osservatore e l’osservato sono uniti dal reciproco scambio di energie.
3. Dal punto 1 si comprende che, affinché le medicine “alternative” possano essere considerate valide in ambito scientifico, è necessario che esse rispondano al suo metodo. Esiste, tuttavia, la difficoltà di applicare ad esse il concetto di riproducibilità, per diversi motivi: una maggiore variabilità nella scelta terapeutica, una maggiore soggettività e, frequentemente, la focalizzazione su fenomeni “energetici”, che sfuggono alle tecniche di indagine sperimentale. Consideriamo per un attimo, allora, il concetto di riproducibilità.
Riprodurre qualcosa esattamente, in realtà, è impossibile: ciò che facciamo normalmente è fissare degli standard per cui due circostanze sono abbastanza simili, “quasi uguali”, e pertanto possiamo considerare il secondo evento come una replicazione del primo. Se ragioniamo in termini di causa-effetto, solo la conoscenza di tutti gli elementi che costituiscono un evento, o meglio una circostanza causale, permette davvero di conoscere l’effetto (cfr T. Honderich, “Sei davvero libero?”- Il Saggiatore, 1996). In altre parole: se sfreghiamo un fiammifero, ci aspettiamo di ottenere l’effetto dell’accensione del fuoco, ma se il fiammifero è eccessivamente umido, la nostra previsione sarà disattesa, perché non abbiamo considerato che anche l’umidità rientra nella circostanza causale necessaria per l’accensione del fiammifero, cioè non otteniamo l’effetto voluto perché non eravamo pienamente a conoscenza delle cause. Ecco perchè, ad esempio, la fisica viene considerata una scienza più solida della biologia (o della medicina): perchè nel secondo caso sono moltissimi i fattori che sfuggono ai nostri calcoli. Allora pensiamo davvero che altre medicine, come quella cinese, non prendano in considerazione la riproducibilità?
Sicuramente ne tengono conto, solo che sovente fanno riferimento ad un numero molto maggiore di “elementi causali” (termine poco appropriato ma utile alla esemplificazione), di sintomi e segni, rispetto alla medicina occidentale, per cui, per trovare due casi abbastanza simili, su cui si possa applicare il concetto di “replicazione”, serve un campione molto più ampio. Al di là della riproducibilità non v’è grossa differenza di metodo fra le pratiche mediche: osservazione, ipotesi, test (logici o empirici), ed elaborazione di una teoria (o diagnosi).
Concludendo, un’ultima osservazione: più che tentare di verificare il successo di una scienza medica in base ai nostri standard, non sarebbe forse più utile indagare se le conoscenze di quest’ultima possono arricchire la nostra cultura nel settore?
In una recente intervista, ho sentito dire ad un nefrologo molto noto che la sua equipe sta conducendo ricerche sull’associazione, non intuitiva, fra malattie cardiache e renali. Anche se i concetti di “cuore” e “reni” sono molto diversi nella medicina cinese rispetto a quella occidentale, l’asse cuore-rene è noto in Cina da più di duemila anni ed utilizzato a scopo diagnostico. Gli ho scritto una email per chiedergli se avesse considerato l’opportunità di prendere spunto da quel bacino di conoscenze millenarie, nel corso dell’indagine sperimentale. Purtroppo non ho ricevuto alcuna risposta.